
Le radici certamente antichissime del Carnevale, forse risalgono addirittura all'epoca romana, in concomitanza con i saturnali, un ciclo di festività in cui ci si lasciava andare ai piaceri del cibo e del corpo. Durante tutto il periodo dei saturnali veniva messo in atto un sovvertimento delle gerarchie e degli ordini sociali che portava allo scambio di ruoli e al camuffamento della propria identità. Perciò l’uso delle maschere, a celebrare un momento in cui era lecito rompere gli schemi e lasciarsi andare alla dissolutezza.
A Napoli, Sant’Antuono (Sant’Antonio Abate, 17 gennaio) segnava l’ingresso del Carnevale e in questa occasione si dava fuoco a cataste di roba vecchia. Così iniziava il periodo sovversivo e godereccio, che sarebbe durato fino all'ingresso della Quaresima; il Carnevale napoletano, infatti, più che in altre parti del nostro Paese, ha mantenuto nei secoli i suoi tratti ancestrali di rivoluzione scherzosa e grottesca, persino pericolosa.
A partire dal 1500, in città si scatenava una vera e propria lotta tra fazioni: nobiltà contro popolani, che si sfidavano a colpi di feste, mascherate e buffonate. Oppure, la memoria folkloristica rimanda al periodo d'oro del Carnevale partenopeo, gli anni dei Borbone, quando i carri della cuccagna sfilavano per le vie cittadine carichi di ogni sorta di vivande, e siccome l'assalto e la razzia dei carri provocava ogni volta gravissimi incidenti tra la popolazione, Carlo di Borbone stabilì che i carri–cuccagna, invece di attraversare le strade cittadine, dovevano essere allestiti nel largo di Palazzo e guardati a vista da truppe armate fino all’inizio dei festeggiamenti. Quei carri, durante i secoli XVII e XVIII, furono sostituiti dall’Albero della Cuccagna o “palo di sapone”, detto così perché reso scivoloso in modo da rendere più difficile l’arrampicata dei concorrenti per arrivare alle vivande poste in cima. In tutto questo caos di abbondanza, le maschere erano d'obbligo, ma tutte legate al popolo; tra le più accreditate, oltre al celebre Pulcinella, simbolo del Carnevale partenopeo e della sua cultura, le altre “mezze maschere”, o meta-maschere (perché allegoriche) più apprezzate, furono la Zeza, moglie di Pulcinella, Don Nicola, l'avvocato imbranato e Giangurgolo, quest'ultimo apparso già nel 1618 come personaggio della Commedia dell’Arte, che si distingue per il suo gusto delle oscenità, la sua maschera rossa che fa il verso a quella di Pulcinella e le vesti da capitano spagnolo. Il suo nome è un chiaro rimando alla voracità e alla fame da donnaiolo ed è una tipica maschera d'invenzione napoletana.
Per quanto riguarda la Vecchia del Carnevale, una vecchia dal viso grinzoso e deforme, ma da un corpo giovane e prosperoso, dotata di una gobba sulla schiena sulla quale porta Pulcinella, intento a ballare e a suonare le nacchere, è certamente la più famosa tra le meta-maschere partenopee, alla quale sono stati attribuiti numerosi significati allegorici, ma tutti che rimandano al rito del passaggio: la parte deforme ed invecchiata del corpo rappresenta il tempo passato negativamente, l’inverno e la natura appassita, mentre la parte giovanile e florida simboleggia la primavera, l’arrivo del nuovo anno ricco e fecondo.
Rossella Marchese
A Napoli, Sant’Antuono (Sant’Antonio Abate, 17 gennaio) segnava l’ingresso del Carnevale e in questa occasione si dava fuoco a cataste di roba vecchia. Così iniziava il periodo sovversivo e godereccio, che sarebbe durato fino all'ingresso della Quaresima; il Carnevale napoletano, infatti, più che in altre parti del nostro Paese, ha mantenuto nei secoli i suoi tratti ancestrali di rivoluzione scherzosa e grottesca, persino pericolosa.
A partire dal 1500, in città si scatenava una vera e propria lotta tra fazioni: nobiltà contro popolani, che si sfidavano a colpi di feste, mascherate e buffonate. Oppure, la memoria folkloristica rimanda al periodo d'oro del Carnevale partenopeo, gli anni dei Borbone, quando i carri della cuccagna sfilavano per le vie cittadine carichi di ogni sorta di vivande, e siccome l'assalto e la razzia dei carri provocava ogni volta gravissimi incidenti tra la popolazione, Carlo di Borbone stabilì che i carri–cuccagna, invece di attraversare le strade cittadine, dovevano essere allestiti nel largo di Palazzo e guardati a vista da truppe armate fino all’inizio dei festeggiamenti. Quei carri, durante i secoli XVII e XVIII, furono sostituiti dall’Albero della Cuccagna o “palo di sapone”, detto così perché reso scivoloso in modo da rendere più difficile l’arrampicata dei concorrenti per arrivare alle vivande poste in cima. In tutto questo caos di abbondanza, le maschere erano d'obbligo, ma tutte legate al popolo; tra le più accreditate, oltre al celebre Pulcinella, simbolo del Carnevale partenopeo e della sua cultura, le altre “mezze maschere”, o meta-maschere (perché allegoriche) più apprezzate, furono la Zeza, moglie di Pulcinella, Don Nicola, l'avvocato imbranato e Giangurgolo, quest'ultimo apparso già nel 1618 come personaggio della Commedia dell’Arte, che si distingue per il suo gusto delle oscenità, la sua maschera rossa che fa il verso a quella di Pulcinella e le vesti da capitano spagnolo. Il suo nome è un chiaro rimando alla voracità e alla fame da donnaiolo ed è una tipica maschera d'invenzione napoletana.
Per quanto riguarda la Vecchia del Carnevale, una vecchia dal viso grinzoso e deforme, ma da un corpo giovane e prosperoso, dotata di una gobba sulla schiena sulla quale porta Pulcinella, intento a ballare e a suonare le nacchere, è certamente la più famosa tra le meta-maschere partenopee, alla quale sono stati attribuiti numerosi significati allegorici, ma tutti che rimandano al rito del passaggio: la parte deforme ed invecchiata del corpo rappresenta il tempo passato negativamente, l’inverno e la natura appassita, mentre la parte giovanile e florida simboleggia la primavera, l’arrivo del nuovo anno ricco e fecondo.
Rossella Marchese