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L’angolo di Rosario Ruggiero: Irena Sendler, eroina ritrovata

4/12/2016

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Se si può definire stupido un libro che divulga solo stupidità, non si potrà non riconoscere nobile un volume che promana grande nobiltà.
E sicuramente nobilissima è allora la recente pubblicazione di Roberto Giordano, edita da “La mongolfiera”, dal titolo “Irena Sendler. La Terza Madre del Ghetto di Varsavia”, ultimamente presentata a Napoli, presso la Libera Università Europea Terza Età Campania, nel corso di una serata che ha prepotentemente mosso i pensieri e le emozioni dell’attento pubblico in buon numero lì riunito.
Nuova proposta di un tema già offerto dall’autore in forma teatrale, le circa cento pagine del libro illustrano, anche fotograficamente, la figura di un’incredibile eroina polacca che, durante l’invasione nazista della prima metà del secolo scorso, riuscì a sottrarre al crudele regime tedesco ben oltre duemila bambini ebrei, procurando loro una nuova famiglia o comunque pie cure. Sarà arrestata e ferocemente torturata. Non svelerà mai nulla, e, indomita, continuerà irrefrenabile la sua altissima opera umanitaria, per quanto oramai resa inferma dai maltrattamenti subiti. Un’azione molto ammirevole, per lunghi anni ignorata, infine, solo di recente, messa in luce.
Le emozioni sono molte, le considerazioni che sgorgano da questa esemplare vicenda umana tante; su tutte, una bizzarra arbitrarietà della storia di nascondere con disinvoltura fatti e figure massime, al tempo stesso, con superficialità, celebrare sovente valori e personaggi miseri, patetici, tristemente risibili quando non palesemente dannosi, come tanta cronaca odierna, soprattutto attraverso i grandi mezzi di comunicazione, ogni giorno di più inclina a dimostrarci.
Esiste un monumento al milite ignoto. Sarà innalzato mai un simulacro all’uomo di valore sconosciuto, a quanti hanno saputo cambiare positivamente il mondo, talvolta dalle basi, e, umiliati dall’ignoranza e trascuratezza del resto del mondo, sono ancora in attesa di una doverosa scoperta a beneficio innanzitutto nostro?
Questo l’ulteriore contributo di spiriti grandi quanto generosi e modesti; questo l’ulteriore contributo dell’esemplare vita di Irena Sendler.


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Le madri diverse di Napoli

29/7/2016

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Un drappo rosso, un unico pezzo di un tessuto intriso di sangue e dolore con un taglio uguale nell'inizio e nella fine. Così appare l'ultimo romanzo di Andrej Longo, “L'altra madre” edito da Adelphi. Il terzo romanzo pubblicato dalla prestigiosa casa editrice, firmato dallo scrittore originario di Ischia è una immersione a piè pari in uno spaccato partenopeo truculento quanto reale. Una fiction che, in prima battuta, potrebbe rimandare il potenziale lettore alle serie tv thriller pulp di ultima generazione, ambientate a Napoli sui set più tristemente avvincenti. 
Nella presa serrata della lettura la trama è incentrata su una coppia di adolescenti di opposta estrazione sociale. Figli di una coppia di giovani madri altrettanto diverse, accomunate dalla stessa e diffusa solitudine genitoriale. La prosa avanza in un ritmo  irrefrenabile e crescente dove il linguaggio crudo e spietato, cifra di una infanzia negata, è già consumato nella ricerca di un’appartenenza al mondo degli adulti. Appartenenza accreditata grazie all'uso di un revolver e al maneggio spregiudicato di una moto.
Sull’altro fronte lo sbocciare dei primi amori, la passione per le conchiglie e i pesci del mare, prende corpo e sentimenti in una ragazzina di sedici anni. Incantata in un grande negozio del Vomero nella scelta del suo primo abitino da festa con l’amica del cuore.  
Genny e Tania, i due figli di una Napoli diversa dai ricorrenti stereotipi, forse invisibile, ad ogni modo reale. Il loro incontro casuale, nato per una futile quanto assurda iniziazione delinquenziale segna l'evento tragico e violento, cuore nero dell'intera vicenda. La morte di Tania, vittima del “borseggio per gioco”, segnerà irrimediabilmente le vite delle protagoniste: le due madri.
L'altra, quella di Tania, “buona di professione”, espanderà il proprio lavoro (è poliziotta), oltre ogni ragionevole limite per farsi giustizia di un lutto inaccettabile.
L'altra, quella di Genny, correo nell'omicidio colposo, ha già scontato nella sua poverissima e stentata vita, una pena non meritata, immolandosi in vece del figlio.
Che nello spazio temporale di dodici giorni di un maggio immemorabile, vivrà (un eufemismo) esperienze fuori ogni controllo umano e cognitivo. In balia della reazione “materna” (un eufemismo), di Irene, quella “buona di professione”, oramai ex poliziotta, ex madre, ex donna, ma ancora un “essere umano”. Una creatura sopravvivente, lanciata in un vortice di azioni non contemplate nello scorrere quotidiano di una vita caotica e complicata, pur sempre incardinata in confini scrutabili.  
La tensione emotiva che implode nel dolore materno, genera una lettura bulimica che divora le pagine del testo, pur graffiate da una scrittura tracimante pugni e rigurgiti sadici intorno a perle candide di struggente emozione.   
Difficile stigmatizzarne la mancata ripresa panoramica sul belvedere della città.
Senza escludere a priori il probabile occhio chiuso degli osservatori istituzionalizzanti, puntuali e indispensabili, non esistono spazi per spunti polemisti. Nell’eventuale caso, sarebbero i tipici segnali di un target da best seller.
Adrenalina letteraria e pulsioni emozionali, più che compatibili.       
 
Luigi Coppola



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Un corpo immortale con la pelle di Napoli

24/7/2016

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Rivisitare Napoli per restituirne un’ idea omogenea sulla sua storia, lo stile di vita, il contesto, spesso ricordato come “napoletanità”, è una sfida. Un'impresa che affascina con cadenza ritmata nel tempo una varietà di autori, non sempre puntuali o adeguati allo scopo. 
Pietro  Treccagnoli con il suo saggio  “La pelle di Napoli”, in libreria dallo scorso 18 maggio per i caratteri di Cairo Editore, realizza un unicum nel pianeta editoriale Napoli.
Il libro di Treccagnoli, cronista de Il Mattino di Napoli, racchiude quarantaquattro corrispondenze in altrettante situazioni e ambienti, visitati in prima persona nella città partenopea. Riunendo con un piacevole ritmo narrativo i servizi realizzati tra il 2014 e il 2015 per il primo quotidiano del Mezzogiorno d’Italia.  
Il sottotitolo (Voci di una città senza tempo), evoca un potere taumaturgico, più che salvifico. Forse una semplice buona speranza coltivata con una ostinata capacità di riproduzione, insita nei tessuti cutanei di un corpo articolato e complesso, ferito e lacerato, piegato anche da colpi proibiti, segnato nelle rughe di una età millenaria. In ogni caso tenacemente impegnato in una continua evoluzione.
Presentato la prima volta lo scorso 26 maggio alla libreria Feltrinelli di Napoli alla presenza del presidente dell'Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone, con le prime firme del giornalismo campano, il saggio non è un “libro dei Napoletani”, né può essere classificato come una mera fabula giornalistica. Questo articolato viaggio consiste in una vera maratona fra fondaci levantini, porte antiche, mercati storici e vicoli da labirinto. Consumato dall’autore esploratore in chilometri e suole di scarpe. Una esplorazione a tutto tondo in tanti luoghi e ritrovi della città millenaria, molti dei quali, sconosciuti ai tanti presunti cultori del golfo reale. Proprio l'attenzione di autorevoli intellettuali ha sortito inevitabili accostamenti politici anche per le recenti tornate amministrative, praticamente coincidenti con l'uscita del libro che per la sua genuina raccolta di umori e testimonianze conferma proprio l'equidistanza da eventuali connotazioni politiche.
Il minuzioso docufilm narrato, depurato dai troppi e mai superati stereotipi della vulgata contraffatta, è piuttosto una attendibile mappatura sociale e culturale dove le politiche istituzionali potrebbero e dovrebbero intervenire affinché, una prossima iniziativa di questo tipo, possa consegnare la lettura veritiera di una “nuova pelle” non rifatta con i lifting e i ceroni palliativi delle buone intenzioni.       
C'è tanta roba, espressione piuttosto semplicistica e abusata, che rende il lavoro di Treccagnoli, un'opera di ampio respiro con un ideale filo rosso congiunto ai grandi autori del Novecento partenopeo. Difficile non associare ai percorsi consumati dallo scrittore, le Edoardiane  “voci di dentro”; gli angusti scenari di Anna Maria Ortese o le corrispondenze di Luigi Compagnone e Raffaele La Capria. Non si tratta di cercare paragoni illustri. Il piacevole estro narrativo, già definito da Eduardo Milone “flaneur sanguigno”, rimanda nelle esternazioni di alcuni protagonisti a quella posa verace che fece la fortuna di tanti autori partenopei anche contemporanei: da De Crescenzo a Rivieccio, sino alla prosa universale di Troisi e Siani. La commistione fra i quartieri antichi, storici (il Pallonetto di Santa Lucia, Via Toledo) e le voci  dei residenti si integra in uno scenario ruvido, dove bello e brutto sono netti e reali.
Non è la pentola che scoperchia il disagio: gli ucraini della Sanità, i cinesi di Gianturco, le schiere multietniche riversatesi negli ultimi lustri all'ombra del Vesuvio, imprimono una pesante zavorra piuttosto che il “patrimonio di una umanità” disarmonica. Umanità concentrata nei luoghi più diversi, accomunati dal persistente sfondo, un marchio dop nel triangolo “tufo, zella, mondezza”. All'unisono le voci dei protagonisti interpellati dal viaggiatore errante (per chi scrive dall’isola, tornano alla mente le visioni di Paul Valery con il suo “Viaggio in Sardegna”) non lasciano dubbi su quei “mille culure e mille paure” cantate  dal compianto mentore Pino Daniele. Non solo immigrati e ultimi danno fiato alla “pelle” di Treccagnoli. Gli orefici del centro storico, i pescivendoli e fresellari del Borgo S.Antonio, i parcheggiatori abusivi con i custodi di luoghi sacri e reconditi, contribuiscono con spontaneo entusiasmo a colorare l’epidermide dello smisurato corpo. La prefazione di Alessandro Barbano, direttore de Il Mattino e la conclusione dello stesso autore che ringrazia il gioco di squadra dei colleghi (Gennaro Di Biase e Sergio Siano), decisivo nella selezione dei testi, conferma come il guado tra giornalismo e letteratura sia sostenibile, rispetto alla sete della conoscenza e all’amore per la narrazione.
 
 
Luigi Coppola

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La Tv che ha fatto la tivù

4/6/2016

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​​Dopo aver raccontato l'entusiasmante avventura della televisione commerciale in Italia nel libro “La TV che ha cambiato la tivù”, Antimo Verde ritorna in libreria con un nuovo ed interessante volume: “La TV che ha fatto la tivù”.
Se nell'opera precedente, si ripercorre il lungo e travagliato inizio delle televisioni private nel nostro Paese sino alla loro completa affermazione, in quest'ultimo libro, che vuole essere, sì una sorta di prequel, ma anche di una rilettura dei periodi già affrontati, visti da una diversa angolazione, Antimo Verde, regista e autore teatrale, addetto stampa, che oltre alla sua attività professionale, si interessa da sempre alla storia del costume e dello spettacolo italiano e internazionale, pubblicando tra l'altro vari testi sull'argomento, narra e celebra, invece, la televisione pubblica dalle sue origini alla fine della Prima Repubblica.
Un lungo e intenso viaggio di 152 pagine che ripercorrono anno dopo anno la vita della TV in Italia, dai vagiti della radio alle fugaci trasmissioni sperimentali della televisione, per passare poi ai primi veri programmi fatti di varietà, sceneggiati e quiz che catturano ogni giorno milioni di telespettatori, consacrando grandi personaggi dello spettacolo, e che ne fanno l'unica e legittima televisione esistente nel Paese, sino a perdere definitivamente il suo monopolio, costretta a combattere e confrontarsi giornalmente con le nascenti e agguerritissime televisioni commerciali. Il libro si presenta come un vero e proprio iter, fondato su una meticolosa ricerca che l’autore, in maniera seria e competente, ha condotto attraverso fonti e materiale dell’epoca. L’opera, non solo guida il lettore, attraverso racconti poco noti, aneddoti divertenti e curiosità varie del mondo della televisione e dello spettacolo, ma mostra come tanti programmi e personaggi hanno contribuito a modificare gradualmente il piccolo schermo e contemporaneamente la vita del singolo spettatore,  facendone di conseguenza la più celebre e controversa televisione pubblica al mondo. Ha, inoltre, il merito di far rivivere e rivelare indimenticabili momenti della storia del nostro Paese con episodi e avvenimenti che inducono a comprendere e riflettere su quanto e come sia cambiata progressivamente la società nel corso di quegli anni. Un entusiastico omaggio a quella buona e vera televisione, nata per soddisfare esigenze didattiche e culturali, fatta di idee originali e innovative, e che grazie alla sua linea editoriale riesce a diventare universalmente la più apprezzata. Seppur mutando radicalmente gli usi e i costumi degli italiani, non riesce però, a conservare integralmente la sua vera identità, perdendosi paradossalmente nelle dinamiche commerciali. Un interessante opportunità, non solo per ragionare sul ruolo della televisione nella società, ma anche una magnifica occasione per coloro che non li hanno vissuto, e per quanti, invece, vogliono riviverli, di ricordare gli anni in cui la TV ha fatto la tivù. 

​Nicola Massaro


Antimo Verde
La TV che ha fatto la tivù
The Writer
2016, pagine 152, € 12.,00

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Claudio Abbado: impegno sociale e attività culturale

24/5/2016

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La pubblicistica su Claudio Abbado è diventata ormai vastissima e quasi sempre focalizzata sugli aspetti concertistici e “tecnici” del percorso professionale che il Maestro ha svolto in molti angoli del mondo, ogni volta lasciando dietro di se una vasta eco di stima e di alta considerazione.
L’Autrice Maria Vittoria Arpaia incontra Abbado nel corso dei suoi studi universitari e rimane attratta dal suo grande impegno sociale che costantemente ha affiancato il suo percorso concertistico e culturale. Il testo evidenzia con chiarezza e dovizia di particolari l’intreccio indissolubile fra vita professionale, privata e culturale del Maestro. Ogni aspetto è condizionato e nel contempo arricchito dagli altri delineando una personalità complicata dove emergono fattori molto volitivi che viaggiano con la sua speciale capacità persuasiva e spesso trascinante della dolcezza dei modi e nella capacità di ascoltare le opinioni e punti di vista per farli subito propri, per ripensare assunti e teoremi, per ripartire con una diversa idea che cambia tutto.
Il percorso temporale che il libro prende in considerazione è molto ampio partendo dagli anni della formazione dal 1968, fino ad arrivare quasi agli ultimi giorni di attività del Maestro nel 2013.
Questo lungo tempo è una cavalcata nei decenni della storia del mondo dove è accaduto tutto e il contrario di tutto: conflitti geopolitici, solidarietà, crescita e decrescita economica, dialogo sempre più ampio con altre visioni del mondo e con le relative scale di valori e di cultura.
Il libro evidenzia la capacità di Abbado di capire prima di altri l’apertura del mondo occidentale ad altri perimetri di pensiero meritevoli di attenzione e di opportuna considerazione. Il testo analizza le tappe del suo cammino professionale e culturale dall’Europa alle Americhe dove apprende un modo diverso di fare cultura musicale, con un inedito modo di diffonderne il messaggio anche e soprattutto alle classi emarginate. La tenacia e la determinazione con cui il Maestro realizza il progetto culturale e sociale di diffusione della musica - inizialmente considerata “visionaria” -  riesce a sfondare i muri dell’indifferenza e talvolta della diffidenza da parte delle Istituzioni e dei poteri politici.
Il libro dell’Arpaia ci propone un Abbado alla sommità della notorietà mondiale e ai vertici della capacità tecnica e professionale che tuttavia riesce a spendere una incredibile energia per la crescita culturale della società e per la fruizione del messaggio musicale come un modello di vita, come un elemento che affina lo spirito, la cooperazione fra persone libere di capire, di condividere, di crescere.

Manlio Lo Presti
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Maria V. Arpaia
Claudio Abbado. L'impegno sociale e l'attività culturale
Aracne, 2016
pp. 197, € 12,00

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Benedetta Craveri, Gli ultimi libertini, Adelphi, Milano 2016, pag. 620, € 27,00

6/4/2016

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Il libro tratta un particolare aspetto della civiltà del Settecento francese. Un periodo storico da lungo tempo esaminato dalla studiosa Benedetta Craveri. Diversamente dai tipici libri di storia, le vicende politiche internazionali e quelle militari sono in sordina. L’abilità narrativa dell’Autrice evidenzia un settecento francese come l’apoteosi del cerimoniale, del rituale e dell’etichetta. Ogni gesto scandisce i tempi e lo sviluppo dei rapporti sociali della casta alta francese e ne stabilisce ruoli precisi e gerarchie stringenti. La vasta operazione di elevazione formale e culturale della nobiltà francese costituisce il compimento del disegno politico della monarchia francese assolutista di concentrare in un luogo preciso (Versailles) la nobiltà. Alla casta vengono progressivamente sottratti poteri politici e militari, sostituiti con gran generosità da rendite e lussi elevati. Il tutto ovviamente a carico della popolazione sottomessa. Versailles diviene il terreno di coltura di congiure e di intrighi complicati, ma anche la fonte di concezioni geopolitiche che talvolta preconizzano le imminenti rivoluzioni socio economiche. Molte strategie della politica europea del regno di Francia vengono delineate nei salotti delle grandi Dame di corte. Un aspetto, questo, che la Craveri tratta con maestria rispettivamente nelle opere: Civiltà della conversazione e Amanti e Regine. Nei Salotti del Grand Siècle vengono intessuti i delicati e complessi equilibri economici e militari che faranno della Francia la massima potenza dell’Europa continentale. L’analisi dall’interno delle dinamiche che muovono la nobiltà sono l’argomento del primo dei libri della Craveri pubblicati da Adelphi (Madame Du Deffand e il suo mondo).
Con il testo “Gli ultimi libertini”, l’indagine si sposta sulle esistenze di un gruppo di aristocratici che, con il loro operato, accelerano il disfacimento dell’Ancien Régime mettendo a repentaglio la loro vita, percorrendo la via dell’esilio e della povertà al momento della deflagrazione della cosiddetta Rivoluzione Francese dopo il 1789. L’Autrice ci porta con mano sicura nelle vite di sette libertini che incrociano le loro vicende personali in un mondo che li accomuna. Alcuni rimarranno in Francia fino alla fine, altri salperanno per le Americhe. Ognuno andrà incontro ad un destino non comune all’interno di un processo storico in radicale cambiamento, i cui effetti si riflettono ancora oggi in Occidente e nel resto del nostro pianeta.
Il libro ci fa iniziare un viaggio vertiginoso, ricco di emozioni forti, di paure, di colori, di molti non-detto, di rammarichi, di ricordi, di rimpianti. Un florilegio lungo oltre seicento pagine ben scritte che lanciano un messaggio molto simile al tempo presente che stiamo vivendo!

Manlio Lo Presti

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 Come “spaccare” sui social media

31/10/2015

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Guy Kawasaki,guru di Canva, e Peg Fitzpatrick,social media strategist, sono gli Autori di un brillante e piacevole volume “L’arte dei social media” che in modo semplice e lineare si prefigge di mettere in condizione il lettore di “spaccare” sui social media.
Nel nostro tempo i social media sono uno degli elementi decisivi per determinare un successo o un fallimento.
Trucchi, suggerimenti, consigli dati da esperti, anzi superesperti, per conquistare il mondo dei media ed esserne protagonisti sia a fini commerciali, sia per se stessi o per utilizzare gli strumenti nel proprio lavoro o professione.
Gli Autori presentano una “strategia concreta per avere una presenza calibrata, esauriente e persuasiva sui social media”.
Un viaggio nei media con utili suggerimenti per promuovere un’attività economica, un prodotto o magari noi stessi.
 
Alessandra Desideri






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Guy Kawasaki, Peg Fitzpatrick
L'arte dei social media
Hoepli, 2015, pp. 190, € 19,90
 eBook disponibile

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Gadamer: Educare è educarsi

11/10/2015

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Questo piccolo libro contiene l’intervento del professor Gadamer in occasione della conferenza tenutasi il 19 maggio 1999 dedicata al tema “L’educazione della crisi - una possibilità per il futuro”. Si tratta di un documento che testimonia la vastità e la profondità del pensiero del Maestro e il fatto notevole che è stato elaborato all’età di 99 anni.
Il tema di fondo dell’intervento del Filosofo è la focalizzazione della profonda differenza fra formazione (Erziehung: educazione dell’altro, insegnamento) e formazione di se stessi (Bildung). Una questione che può sembrare una sfumatura semantica per specialisti. L’Autore fa notare a più riprese che in diverse lingue non ci sono termini diversi fra loro. In Italia, la parola “formazione” comprende entrambi i significati. In questa mancata specificazione, il filosofo sottolinea il fatto che si tende a confondere la formazione con l’addestramento, considerato la prima esige una volontà attiva e partecipativa, mentre la seconda richiede un atteggiamento passivo di semplice esecutore più o meno abile. Nel corso dell’argomentazione, inframmezzata da panoramiche sullo spirito del tempo in materia di insegnamento ed educazione intesa come formazione, l’Autore fa notare che la formazione come crescita spirituale, è fondata sulla personale convinzione del soggetto-discente di fare la cosa giusta. Secondo il grande pensatore, questa volontà di sapere e di capire nasce e si alimenta con il Dialogo. Il processo diventa costruttivo quando  esiste il rispetto  reciproco e quindi riconoscere libera cittadinanza alle opinioni altrui. Toccato il tema della trasmissione della conoscenza che è il terreno della pedagogia (e non della didattica che inerisce all’addestramento), il filosofo si interroga sul profilo che dovrebbe avere il ricevente di tale azione formativa che è l’uomo. Il tema, non è stato per lui così banale, se pensiamo che la riflessione è stata maturata in un contesto in cui l’uomo non esisteva più travolto dal Totalitarismo. Su questo terre egli incontra il pensiero della filosofa Hannah Arendt intorno al totalitarismo come fase ulteriore e più incisiva rispetto alla tirannide sul ruolo dell’uomo nel mondo.
Gadamer ha percorso per intero il cosiddetto “secolo breve” e ha potuto confrontarsi con il pensiero di Guido Calogero in gran parte orientato sulla filosofia del dialogo. Il dialogo come veicolo elettivo della comunicazione umana e del sapere in generale, è un tema che il filosofo svilupperà negli anni come antidoto ad una educazione durissima da parte del padre. Riuscendo a non chiudersi dentro la gabbia dell’“io minimo” che spesso la repressione incoraggia, Gadamer riesce invece percorrere la strada dell’apprendimento come atto di autorealizzazione e di libertà. Il filosofo è ben consapevole che essere liberi, dialogare con il fiducioso ascolto attivo dell’altro, voler perseguire un percorso di crescita spirituale e culturale richiede molto coraggio e determinazione. Ecco il senso del titolo del testo: educare è educarsi!
 
Manlio Lo Presti
 
Hans Georg Gadamer
Educare è educarsi
Il melangolo, 2015, pag. 77, € 12,00
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